Simonetta Murolo

Simonetta Murolo, si presenti (età, attività professionale, pregresse esperienze lavorative, ruoli svolti a livello associativo o di ordine, qualche hobby)

Cinquant’anni il prossimo luglio, metà delle quali spese al servizio della professione che ho scelto. Sono dottore commercialista dal ‘97, e dopo un piacevole girovagare per l’Italia, tra aziende e consulenti, che hanno accresciuto il mio bagaglio esperienziale e mi hanno aiutata a costruire la mia professionalità, non ho avuto il dubbio, ed ho intrapreso la libera professione, qui a Catania, dove sono nata e cresciuta.

Figlia d’arte (mio padre è stato dottore commercialista prima di me, per 18 anni consigliere dell’Ordine territoriale di Catania) ho mutuato da lui un detto che era solito ripetere e che mi porto ancora dentro: “la professione è uno stato dell’anima”. Pertanto, sin da subito, ho sentito l’esigenza di andare oltre dichiarazioni dei redditi e bilanci, e così, dopo una fugace militanza presso l’Unione dei Giovani Dottori Commercialisti, ed essere stata fra i soci fondatori di CO(mmercialisti)ASS(ociati), sono approdata all’Ordine territoriale, prima impegnandomi nelle Commissioni di studio, poi insignita dal past president Sebastiano Truglio del ruolo di Presidente delle Pari Opportunità, che ancora ricopro (per un secondo mandato, scaduto, ma in prorogatio) ed infine quale Revisore (ruolo anch’esso ricoperto attualmente in prorogatio).

Orgogliosamente madre e moglie, cerco, nel poco tempo libero che riesco faticosamente a ritagliarmi, di coltivare l’innata passione per la scrittura, che, a livello amatoriale, negli ultimi anni, ho messo a frutto anche al servizio della mia Categoria, con qualche modesto contributo on line.

Lettrice seriale, preferisco un buon saggio a lume di candela ad un calice di vino.

La mia più grande soddisfazione: discutere di Catullo, Marx e Bauman con mia figlia, ormai quattordicenne.

Partiamo dalla professione di dottore commercialista. Ancor prima dell’accelerazione della digitalizzazione avvenuta col Covid-19, la professione di dottore commercialista stava cambiando. In che modo?

Tra il serio ed il faceto, dico sempre che vanto settantacinque anni di anzianità professionale, volendo inglobare l’eredità spirituale di mio padre nella mia esperienza. Mio padre ha avviato la sua attività quando l’IVA entrava in vigore, insieme al T.U. per le imposte sui redditi. Per sessant’anni la professione è avanzata a passi talmente lenti, che le conoscenze con le quali lui si è abilitato sono rimaste invariate fino a quando ha lasciato questa terra, quindici anni fa.

Un po’ come nel settore dell’IT, mentre negli anni ‘80 la durata delle competenze si aggirava circa in un trentennio, negli anni 2000 quello stesso tempo si è contratto ad un quinquennio: le conoscenze con le quali accediamo al mondo delle professioni, quindi, non sono quelle con le quali ce ne congederemo.

Così, mentre il battesimo informatico di mio padre è avvenuto nel 1993 con il famigerato “740 lunare”, e fino ad allora, carta, penna e calcolatrice erano stati gli strumenti necessari allo svolgimento delle attività tipiche del commercialista, io, che ho cominciato solo qualche anno dopo, nei miei anni di attività ho dovuto inseguire un proliferarsi di portali, più o meno sofisticati, per l’interlocuzione con la P.A., fino ad approdare alla fatturazione elettronica, che, obtorto collo, ha modificato completamente il nostro modo di lavorare. Oggi lavoro con due monitor, un portatile, un tablet ed uno smartphone.

A prescindere dall’instabilità politica del nostro Paese, che di riflesso ha generato mostri tributari sempre cangianti, da inseguire, anche se il core business nel quale si è impegnati non è necessariamente quello fiscale, io dico sempre che, piaccia o no, noi rappresentiamo dagli anni ’90 la categoria digitalmente più evoluta. Non c’è collega che non abbia competenze di Windows (o MacOS), Office, browser, e password, chiavi elettroniche, smart card e quant’altro, oltre che di programmi specifici per lo svolgimento della sua precipua attività.

Teniamo conto, poi, che tutto questo si è rifratto pure sulle attività portate avanti: la “bolla di fiscalità” che aveva rimpinguato le tasche dei nostri “mastri” (oggi più elegantemente ribattezzati dominus), si

è volatilizzata, portando con sé i promessi guadagni, mentre è aumentata la consapevolezza degli imprenditori di dover crescere bene, per sopravvivere in un mercato saturo.

Il Covid-19 ci ha dato la spinta: il prof. Conte, sulla cresta dell’onda, a reti e social riuniti, considerandoci essenziali, se pur non nominandoci mai, ci ha riconosciuta quella medaglia che a conti fatti ci spetta.

Perché noi siamo, insieme con gli imprenditori, la forza motrice dell’economia reale del Paese.

E’ arrivato il Covid-19 e molte abitudini lavorative sono cambiate. Come si sono modificate quelle dei dottori commercialisti?

Da un giorno all’altro ci siamo ritrovati chiusi nelle nostre case. Mentre le scadenze incombevano, nuovi decreti si accumulavano uno sull’altro, e la paura ci faceva compagnia, il Covid-19 uccideva, senza pietà: la televisione ci bombardava di immagini surreali, degne di un una guerra.

Le immagini dei camion dell’esercito in fila a Bergamo rimarranno per sempre nella mia memoria. Disobbedire al lockdown non era un’opzione, reinventarci un obbligo.

Abbiamo dovuto costruire “studi volanti”, con connessioni di fortuna, spesso dai cellulari, in case piene di mariti e figli altrettanto impegnati a ritrovare una dimensione virtuale per le loro attività.

I più fortunati, come me, erano già sul cloud da un po’ o da tanto, ma coordinare colleghi e collaboratori da remoto è stato un lavoro da abile fantasista (come ama dire il dott. Giovanni Emmi). Ancora una volta, abbiamo dovuto sperimentare le nostre competenze digitali, scoprire strumenti come Anydesk e Teamviewer per condividere schermi e lavorare in team comunque. Abbiamo scoperto Zoom, Skype, Meets, Teams, per ascoltare i nostri clienti, ed aiutarli ad affrontare questo drammatico momento.

E nel frattempo abbiamo imparato il valore aggiunto del lavoro agile.

Siamo rientrati, a turni, un po’ alla volta, ma continuando a rimanere distanti, a partecipare a riunioni virtuali.

Però, abbiamo anche scoperto che così possiamo abbattere le barriere territoriali: internet ci ha avvicinati. Possiamo presenziare ad un cda a Catania alle 15 e ad una riunione per una costituenda società a Bolzano alle 16.30.

Si sono allargati i nostri orizzonti: la formazione è divenuta nazionale.

Possiamo partecipare agli eventi organizzati dagli Ordini di Milano, Cagliari, Roma.

Un plusvalore da non poco, che se sapremo cavalcare, insieme con la sfida della digitalizzazione ci vedrà attori del cambiamento.

E’ nel periodo del Covid che è nata l’idea di Indìco, la vostra nuova iniziativa, assimilabile a tutti gli effetti ad una start up? Con quale business idea in particolare?

A ridosso del lockdown, il mio senso etico ed il mio impegno per la categoria mi hanno spinta a cercare qualcuno che potesse aiutare tutti noi a superare questo gap informatico. Giovanni e Rosario Emmi sono riconosciuti da sempre come un’eccellenza in questo. Insieme, e sempre sotto l’effigie del nostro Ordine, abbiamo organizzato, a strettissimo giro un webinar (il primo in assoluto) per i colleghi che avessero necessità di capire come accedere da remoto ai loro archivi, ai loro programmi. Si è consolidato un rapporto, che ha subito incluso le persone a noi vicine. Siamo diventati cinque: Sebastiano Truglio ed io a Catania, Giovanni e Rosario Emmi a Linguaglossa, e Rosario Petralia a Giarre, e insieme abbiamo cominciato ad analizzare criticamente i limiti del modus operandi della nostra professione. E’ nata Indìco, la prima società per azioni tra professionisti del Mezzogiorno, che di fatto non è una start up, sol perché è il frutto dalla trasformazione di una s.r.l. tra professionisti già esistente.

E’ in corso, però l’iscrizione alla sezione speciale delle PMI innovative, ricorrendone i requisiti. “INnovazione, DIgitalizzazione e COmpetenza” è l’acronimo del nomen, che è pure la nostra mission. Applicata alla professione, crea un paradigma rivoluzionario che affonda le sue radici nell’esperienza acquisita da noi soci fondatori, e si avvale dell’automazione dei processi professionali produttivi, e punta all’eccellenza, innescando un circuito virtuoso di risparmio di tempi e fucina di idee. Il tutto per offrire all’imprenditore, che si affida alla nostra assistenza, soluzioni su misura, quasi sartoriali, progettate da un team di dottori commercialisti, con un approccio proattivo ed antifragile che gli garantisca la migliore consulenza esperibile.

Ma non ci fermiamo qui: siamo partner di un’altra società, sempre di nostra fondazione, che gestisce una rete fra professionisti, perché crediamo nell’aggregazione e nella forza dei team.

In sostanza, abbiamo due focus: uno rivolto al cliente, ed uno ai colleghi, per crescere insieme in maniera esponenziale.

Del suo team chi fa parte?

Cinque i soci fondatori: due professionisti affermati (che è un modo carino di dire “vecchini”), una donna professionista (“vecchina”, pure, me lo prendo tutto, perché è così), due giovani professionisti (Rosario e Rosario, classe 82-83). Una vera squadra a 360 gradi, con all’interno le potenzialità per comprendere il mercato e la sua evoluzione, sempre sul pezzo, sia per le questioni organizzative, che per mettere al servizio della società (e del cliente) le nostre competenze.

Ma, soprattutto, per vivere e sognare in grande, mettere sul tavolo idee sempre nuove, sfide che ci facciano sentire vivi, e si compiacciano di quell’aspirazione all’eccellenza alla quale non sappiamo rinunciare mai.

E poi c’è il team: 11 commercialisti, 4 consulenti del lavoro, 12 dipendenti, 1 tirocinante, di cui 21 donne, forza motrice senza la quale le nostre idee non potrebbero divenire realtà.

Mi piace evidenziare come, da parte nostra, ci sia stata una specifica e puntuale volontà di esprimere una compagine societaria inclusiva, rispettosa del genere, delle età, delle esperienze e delle opportunità.

Non ci sono cartellini, non si timbra: siamo tutti professionisti, lavoriamo declinando le nostre tempistiche ed il nostro impegno secondo le nostre inclinazioni (nel rispetto delle scadenze).

C’è spazio per tutti, ad un’unica condizione: etica, deontologia ed aspirazione all’eccellenza, al nostro servizio, anzitutto, e poi a quello del cliente.

Ritiene scalabile il vostro progetto, nel senso che la società potrà crescere velocemente?

Beh, questo è l’obiettivo: Indìco spa t.p. aggrega i fatturati di noi cinque, la base di partenza è certamente già di tutto rispetto. L’attesa è che la forza centripeta della nostra sinergia produca un margine positivo di almeno il 20% in più già nel 2021. Nel prossimo triennio investiremo in digitalizzazione, già con Rosario Emmi stiamo discutendo di un progetto di intelligenza artificiale che, se andrà come dalla nostra visione, rappresenterà una svolta epica.

La sua professione oggi è aggredita, diciamo benevolmente, da tanti altri soggetti che a vario titolo assistono le imprese soprattutto per gli adempimenti fiscali e lavorativi. Come si difende l’Ordine dei dottori Commercialisti?

L’art. 1 del D.Lgs. n. 139/2005 (Costituzione dell’ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili) declina le attività nelle quali ci è riconosciuta competenza specifica, senza tuttavia riservarne alcuna di essa all’esclusiva della Categoria.

Questa è, da sempre, una questione spinosa di non poco conto.

Nell’ultimo quindicennio abbiamo visto proliferare realtà di tutti i tipi, che hanno cercato di insinuarsi tra le pieghe delle nostre competenze.

La nostra arma di difesa è sicuramente l’iscrizione all’Ordine, che è garanzia, non per noi iscritti, ma per il cittadino e cliente, di etica comportamentale e serietà professionale, attesa la necessità di superare un esame di abilitazione e di rispettare il codice deontologico di categoria.

Queste, insieme con l’obbligo di stipulare una polizza assicurativa per le nostre attività dovrebbero di per sé essere bastevoli ad evidenziare una differenza di fondo fra il nostro operare e quello di chi alla Categoria non appartiene.

Certo, il messaggio è sottile, e la comunicazione non è veicolata sui mass media in modo chiaro ed efficace. C’è tanta strada da fare, affinché questa consapevolezza sia diffusa capillarmente, ma confido che, col tempo, il messaggio passerà.

Noi abbiamo costituito Indìco Spa t.p. che vuole essere trasparente vetrina di questi fondanti valori della nostra professione, sui quali abbiamo fin ora basato il nostro percorso e verso i quali continueremo ad ascendere, insieme con una spiccata tendenza alla specializzazione, che consente a ciascuno di noi di acquisire competenze specifiche ed esperienze di lungo corso tali da garantire il meglio al nostro cliente.

All’interno dell’Ordine, lei ricopre il ruolo di responsabile per la parità di genere. Con quali obiettivi in particolare?

E’ un percorso ormai consolidato da oltre sei anni di attività all’interno del Comitato, cui tanto ho dato, e che molto di più mi ha restituito, in termini di consapevolezza.

Il tema delle p.o. è troppo spesso circoscritto al ruolo della donna, alla stratificata esigenza di proteggerne la figura da parte di una società che al contempo la mortifica.

In verità, nelle p.o. c’è molto di più.

C’è un’urgenza di inclusione che non si limita al genere, c’è una necessità latente di consentire alle diversità di affermarsi per ciò che sono, evidenziandone le qualità.

C’è un impulso, che non possiamo lasciare che scemi, di promuovere giovani ed anziani, che rappresentano il nostro passato ed il nostro futuro, da dove veniamo e dove vogliamo andare.

Ed in mezzo a tutto questo c’è un welfare troppo spesso miope e strumentalizzato, che deve riprendersi la sua centralità.

Il percorso è assai difficile, il nostro Comitato ha lavorato, e continuerà a lavorare nella via della consapevolezza, affinché ciascuno di noi possa affinare la propria etica e l’ontologia del suo vivere. Tra tutte, una consapevolezza specifica mi è entrata dentro, e sta là, accantonata nella mia coscienza, in attesa di essere meglio esplicata: quella della violenza economica, di quella subdola manipolazione che l’uomo contro la donna, o la donna contro l’uomo, il genitore contro il figlio e viceversa, attua a volte al fine di controllarne la vita, più spesso sol perché incapace di reagire adeguatamente a fallimenti personali che non vuole o sa ammettere.

L’Ordine di Catania ha collaborato attivamente con l’Università di Catania nell’organizzazione di Start Cup Catania. La considera una buona prassi? Cosa le ha lasciato sul piano personale, dato che anche lei è stata coinvolta?

La collaborazione delle Università con le realtà professionali ed imprenditoriali territoriali sono certamente un’opportunità di crescita reciproca che gli attori della partnership non devono mai farsi mancare.

Il nostro past-president Sebastiano Truglio, in quest’ottica, ha, da subito, accolto con spirito propositivo l’occasione, con grande ritorno per tutti.

Partecipare alle edizioni è stato sempre un grande onore, per me.

I giovani rinvigoriscono, hanno talmente tanto da donare, che è un arricchimento più che vicendevole. Inoltre, è stata l’occasione per approfondire lo studio e la conoscenza di mercati hi-tech cui altrimenti non avrei mai trovato il tempo di avvicinarmi.

Questa, fra le altre, la ragione del contatto profittevole coi colleghi Giovanni e Rosario Emmi, e Rosario Petralia, che, nel tempo, hanno favorito la costituzione di Indìco.

Possiamo dire in conclusione che c’è stato un reverse mentoring, cioè che voi commercialisti avete imparato dai giovani nel fare anche voi una sorta di start up?

Il reverse mentoring è un plusvalore sul quale, nel mio ruolo di p.o., da sempre, insisto con grande enfasi: l’incontro tra giovani e senior è la chiave di volta del nostro successo. Non a caso anche nella costituzione della nostra società abbiamo posto un’attenzione maniacale alla composizione eterogenea dei founders, coinvolgendo anche i nostri giovani nella direzione e controllo dell’idea.

Sicuramente abbiamo appreso dai giovani l’importanza della digitalizzazione, di un approccio consapevole all’innovazione, pur senza tralasciare mai il valore aggiunto dell’esperienza. Usando una metafora, l’esperienza rappresenta le radici di un albero: devono essere forti e sostenere l’intero albero; senza di esse l’albero stesso non potrebbe sopravvivrebbe e una raffica di vento lo spazzerebbe facilmente via; l’innovazione invece è raffigurata dalle foglie, che mutano sempre, ma ogni volta che succede è un anno in più che passa e l’albero ne esce accresciuto e più forte.

Così, certamente, ci ritroviamo nel concetto di start-up, malgrado l’età nostra complessiva si aggiri sui duecentotrentasette anni, e la nostra esperienza collettiva conti già centocinque anni.

Perché è lo spirito dell’approccio all’innovazione, alla digitalizzazione, alla scoperta di un nuovo orientamento alla professione, che passa attraverso l’applicazione dell’hi-tech e dell’intelligenza artificiale alle nostre procedure, a fare la differenza.

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